1. Equilibrismi
Quella di Silvia Secco
è poesia delicatamente, intensamente erotica dall’inizio alla fine. Da una
parte, e dall’altra è una costante riflessione sui principi di composizione del
verso. Eros e retorica sono gli argomenti trattati nei due grandi dialoghi
platonici: il Simposio e il Fedro. Dovremo dunque
tenerli presenti in questa disamina delle tre raccolte finora edite della
poeta. Eros e retorica vanno qui intesi come i principi complementari di
riproduzione rispettivamente del mondo e del discorso. E siccome il linguaggio
verbale è il mezzo principale per rappresentare il mondo, la retorica risulta
un ausilio indispensabile per l’operare stesso dell’eros. Nel Simposio di
Platone, Eros viene rappresentato come un grande demone, figlio di Poros e di
Penia, cioè dell’abbondanza e della mancanza, e dunque da un lato capace di
indicare la strada e fare grandi doni agli umani ma dall’altro essenzialmente
inquieto e instabile. Nella educazione greca e nella erotica socratica poi,
come è noto, l’eros risulta un ingrediente efficace proprio in quanto è
unilaterale: da una parte c’è l’erastés, l’amante maturo ed esperto
del mondo, e dall’altra c’è l’éromenos, l’amato adolescente, ansioso di
apprendere, vulnerabile e inquieto. Nella varietà dei termini che indicano
l’amore in greco (eros, filia, agape, ecc.) e nelle loro rispettive sfumature
semantiche, solo philia, l’amicizia, ha carattere di reciprocità.
Questa drastica ricapitolazione di un’intera visione del mondo, diversa dalla
nostra, ci servirà per orientarci nelle osservazioni che seguono.
La lirica europea, come si sa, è pervasa e dominata dal tema dell’amore, più o
meno idealizzato, dai Provenzali ai Siciliani, dallo Stilnovo a Petrarca, e
così via. La poesia di Silvia Secco è intimamente e cosmicamente poesia
d’amore, nelle varie sfumature e ambivalenze che questo sentimento comporta.
Nella grana fine dei suoi versi, in cui dimostra una vera e propria sapienza
artigianale, ella ci consegna tutte le tonalità di un erotismo tanto
appassionato quanto astuto. D’altra parte, quelli dell’amore e della scrittura
poetica sono temi esplicitamente ricorrenti nei suoi versi: in un discorso che
spesso evoca una minuta, vivace, curata tessitura vegetale, il cui ordito è
costituito da procedimenti poetici ricorrenti, micro e macrotestuali, che vanno
dalla “conta delle sillabe” alla fusione di parole in corsivo, alla ripresa e
sviluppo di alcuni temi chiave che attraversano tutta la sua opera. La sue
trame o filature orizzontali, che sull’ordito si reggono, ci raccontano poi
della ricerca indefessa da parte un io poetico che si studia sempre di
apprendere e cambiare pur rimanendo fedele a se stesso. I suoi libri si presentano
pertanto come figure di una araldica sottesa, minuscoli manoscritti miniati,
oggetti scolpiti in punta di penna, come i piccoli segnalibri che lei suole
donare agli amici nelle ricorrenze e nei simposi poetici. Per questa natura del
suo artigianato e della sua immaginazione, preferisco parlare di ordito e trama
piuttosto che di struttura e intreccio come sarebbe tecnicamente più semplice e
corretto.
Nelle prime poesie da lei diffuse e reperibili in rete, e fino alla sua prima
raccolta edita che ha per titolo azzeccatissimo L’equilibrio della
foglia in caduta (CFR, 2014), si insiste soprattutto sul ricordo e
sulla nostalgia di figure e paesaggi appartenenti alla sua infanzia e
giovinezza nell’alto vicentino, anche con alcune toccanti liriche nel dialetto
materno. Si insiste sullo stupore aurorale per la scoperta del mondo, talvolta
simulando anche un punto di vista e un linguaggio infantili, pescando
ovviamente nella propria memoria ma mettendo a tema espressamente lo statuto e
il valore della finzione poetica come elemento salvifico, supplemento della
originaria angoscia dell’esserci. Un artificio che compensa il male di vivere,
come il trucco della foglia in caduta che non guarda mai verso il basso e
volgendo gli occhi al cielo si illude di poter volare per sempre. Anche questo
elemento, più o meno consapevolmente, è di derivazione platonica. Nel Fedro infatti
Socrate parlando dell’invenzione della scrittura la definisce come un
“farmaco”, cioè un rimedio-veleno per la memoria e per l’arte del discorso. Da
una parte, infatti, essa potenzia enormemente la sua forza comunicativa ma
dall’altra indebolisce la memoria organica, cioè quella virtù dell’anamnesi di
richiamare alla mente le idee eterne che l’anima immortale ha pur contemplato
volando al seguito degli dei “sul dorso del cielo”, ma che ha poi dimenticato
cadendo nei cicli delle sue reincarnazioni. Il famosissimo mito della Biga
Alata e dell’auriga come mediatore fra le opposte pulsioni, spirituali e
materiali, dei due cavalli dell’anima, il bianco e il nero, presuppone infatti
l’adesione alla antica teoria orfico-pitagorica della metempsicosi.
Il “non plus ultra del mito” lo chiamava Schopenhauer, perché la rinascita
senza memoria della vita precedente, il gioco fra memoria e oblio, la
trasfigurazione edificante dell’esperienza nella finzione, è il principio
generatore di tutti i miti, di tutta la poesia del mondo.
Una rappresentazione analoga del rapporto fra Eros e scrittura, in quanto
principi cosmogonici complementari, la ritroviamo fin dall’inizio nei
microcosmi di Silvia, nella prospettiva anamnestica e nella finzione poetica
che tendono a recuperare la meraviglia e lo stupore dei primordi, di
quell’epoca della vita cioè quando è ancora fluido il rapporto fra linguaggio e
mondo e a noi tocca di dare un nome alle cose. Tutto ciò sempre attraverso la
pratica di una revisione certosina che affianca un peculiare, innato taglio
prospettico su quello che si potrebbe chiamare, in ossequio alle sue stesse
trame carsiche, una costante corrispondenza fra testo e territorio, nonché una
oscillazione feconda fra il lavoro di scavo della formica e il libero canto
della cicala nel pieno di una estate.
Ne fa fede la sua prima raccolta, come si diceva, il cui titolo l’autrice
spiega in modo impeccabile: «Che la foglia sia destinata a cadere e così l’uomo
a finire, morire è un dato inevitabile. Ecco il motivo per il quale la caduta è
in apertura, nel momento del volo però che altrimenti sarebbe il momento
disperato, la foglia utilizza un trucco, quello di non guardare giù e di non
perdere d’occhio il cielo.» Si finge cioè capace di volare per sempre, facendo
tesoro delle pause nelle quali riprendere fiato. In questo dispiegamento della
metafora del titolo, c’è la affermazione della poesia come finzione necessaria,
cioè farmaco per l’angoscia dell’umana finitudine. In questa raccolta si
trovano poesie di una intensa, acerba freschezza, vere e proprie gemme vegetali
che urgono da un terreno fertile e curato, mirabili incarnazioni e variazioni
della metafora contenuta nel titolo e della sua spiegazione.
A partire dalla poesia di apertura, che ha la valenza di una vera e propria
dichiarazione di poetica, dove il rapporto fra pensiero, canto e scrittura,
cioè anche fra filosofia, eros e retorica, viene concisamente e lucidamente
messo a tema: «Il pensiero si intrica/ più veloce del corsivo/ nelle trame
della lingua./ Il canto lo renderebbe, forse/ il canto; oppure un fiato./ Il
battito delle ali/ per un solo istante si mostra./ Interiorizzabile quasi…/ Ma
è solo parvenza» (16).
A quello della parvenza, fanno poi seguito subito insieme, nella poesia Vuotonirico,
i temi del vuoto e dell’aridità, che saranno a più riprese sviluppati
nell’intera opera dell’autrice: qui compare in particolare l’opposizione secco/umido,
un tema caro a questa driade dei boschi ossessionata dalla mancanza di linfa
vitale, che ritornerà nelle sue successive prove a esprimere il timore di un
ominoso presagio che ella avverte nel proprio cognome, “Secco”: il rischio
dell’inaridirsi dell’anima e della perdita delle sue ali per la mancanza
d’amore, cui potrà supplire soltanto la cura certosina della scrittura poetica,
l’esercizio sorvegliato della retorica, intesa nel suo senso pieno e originario
come arte del discorso efficace e persuasivo, nonché traccia dell’eros, della
sua capacità di seduzione nel linguaggio – un timore che qui prende corpo nel
“vuoto” che la paventata carenza dell’amore ha scavato nella fresca memoria del
sogno: «Mi sveglio./ Ed ho mani vuote./ Ed ho braccia vuote./ Ed ho labbra secche./
Ed ho ventre vuoto» (18). L’aridità e il vuoto dell’anima e del grembo saranno
temi ricorrenti nella poesia di Silvia. Questo è un filo conduttore forte, che
cuce le sue varie raccolte e ci aiuta a comprendere lo sviluppo della sua
poetica. Per cui risulta illuminante anche la lirica intitolata Il
solco, in bilico mirabile fra l’annuncio e la preghiera, dove l’amore
appare davvero panico in tutto l’arcobaleno delle sue tinte, il fremito delle
sue fibre, che tendono ad acquietarsi dopo l’aratura e la fecondazione del
mondo, nell’ombra verde della infiltrazione vegetale. Eros che si fa cosmico
qui quasi senza sforzo e fa la guerra e la pace con tutto, con passato e
futuro, realtà e finzione, battuta e pausa: e soprattutto col passare del
tempo, con l’entropia in agguato, che tende a parificare i pesi e le misure,
dentro e fuori del testo. Un eros che si acquieta dopo lo spasmo e quasi
insensibilmente assorbendo philia e agape, diventa
umana, cosmica compassione: «Ho attitudine alla tua pena/ antica che di tanto
in tanto esonda/ oltre agli argini del solco, su un palmo/ di mano e lo colma/
allaga/ feconda/ e piano ne matura il frutto» (77). Ecco, qui l’amore appare
atavico, nel contempo materno, fraterno, erotico e filiale: scintilla, linfa,
scavo e traccia, nell’inesorabile flusso del tempo vissuto; così come ci viene
restituito dagli echi e rimandi, dalle studiate aritmie del verso: «No, no: non
ho bisogno/ d’averti accanto per amarti./ Tu sei al fondo, nell’incavo/ del
solco dove ancora scavi/ e t’insinui. Nell’incessante/ amalgamarsi che ci è
dato» (77). E c’è da notare specialmente fin da ora l’insistenza sul tema, di
derivazione zanzottiana, dello scavo, del solco, dell’erosione,
dello svuotamento del terreno della vita e del linguaggio: quello stesso svuotamento
che condurrà Silvia alla reiterata invocazione del silenzio, proprio come esito
inevitabile e atteso, dell’effimero, ubiquo canto di cicale che è l’esistenza
dei mortali. Si tratta di un tema che attraversa tutta la poesia della poeta e
che ritroveremo nella sapiente orchestrazione e nei riverberi metafisici della
lirica finale di Amarene, dove esso ritorna insistente a
caratterizzare le trame fra tempo e memoria, sonno e veglia, physis e logos,
linguaggio e silenzio.
Il silenzio è evocato anche, con una toccante perorazione, in un’altra lirica
della raccolta, intitolata Attutita, a suggellare una sorta di
raccoglimento congiunto di corpo ed anima, mentre fuori nevica e dentro si
avverte già forse l’annuncio del disamore: «Sottovoci celesti/ preannunciano
neve./ Zerogrado notturno:/ più in alto (in altro) si sfa/ un candore…/ Silenzio,/ perfavore… Nevica»
(36). E poi, significativamente, nelle due liriche finali, Il solco,
cui abbiamo già accennato, e la brevissima pregnante Finestate.
Nella prima, esso fa tutt’uno coi motivi dell’offerta, della mancanza e della
traccia dell’amore: «il solco ha forma del tuo corpo/disteso di fianco prima
del sonno/ […] È l’orma che ha segnato il tempo/ […] Non ho bisogno di
nessuna/data. Era estate. Solo questo conta./ E che avevamo vent’anni/[…] / No,
no: non ho bisogno/ d’averti accanto per amarti./ Tu sei al fondo, nell’incavo/
del solco dove ancora scavi/ e ti insinui. Nell’incessante/ Amalgamarsi che ci
è dato» (78). Si raffronti questa offerta-dichiarazione dell’amore giovane,
prepotente e temerario, con quella calcolatissima della lirica conclusiva
di Amarene, che esamineremo in seguito. La fluviale dichiarazione
dell’amore ne Il solco precede la breve lirica finale di
questo florilegio che chiude sul Finestate, sull’orizzonte del
silenzio, quello che attende ogni forma di vita o di parola: «Odo/ un piovere
che batte/ sulla corte le lotte/ dei cani. Il morire/ dell’oggi nel domani»
(79).
Bisognerà fin da ora fare attenzione proprio alle liriche di apertura e di chiusura
delle rispettive raccolte per capire come evolve la poetica di Silvia Secco,
come gira l’orizzonte del suo sguardo. Come si modifica il luogo del suo dire,
pure nella continuità ammirevole del medesimo ricamo.
2. Il disamore
Nella seconda raccolta
di versi, Canti di cicale (Samuele, 2016), i temi
rapsodicamente introdotti nella prima vengono ripresi e sviluppati in un
intreccio drammatico più coeso, che vede come protagonisti, certo, Silvia (così
come io chiamo l’io poetico) e il suo amato ma anche, a un livello più
universale, l’eros stesso e la retorica in quanto principi rispettivi di
organizzazione del mondo e del discorso che lo esprime. Così assistiamo a una
minuziosa esplorazione della trama organica dell’esistenza, alla ricerca di quella
linfa vitale che può rimediare alla aridità che Silvia paventa da sempre come
un presagio iscritto nel proprio nome: Silvia Secco. Ma l’epifania della parola
poetica, in questo libro, si svolge poi tutta in chiaroscuro, sotto l’ipoteca
della scrittura che è come l’incisione di un bisturi e l’iniezione di un
farmaco sulla carne viva del mondo nonché della memoria che ce lo restituisce
volta a volta, ancorché spesso mutilo e trasfigurato. Questo finissimo dramma
erotico-retorico si conclude poi con l’accenno ad una crisi radicale e su una
nota di silenzio. Un vuoto, una pausa di indicibile lunghezza che accomuna il
vissuto e la scrittura dell’autrice, sì che da qui si dovrà ripartire: «ma/
veniva avanti come una stagione/ l’oceano. Un rumore vasto ci gonfiava i/
capelli salmastro, ci aderiva. Già/ avevamo/ umida la pelle. Tacevamo»
(88). La durata di questo silenzio sarà quella necessaria alla rinascita delle
ali dell’anima, toccata dalla linfa di un nuovo amore, ma nel contempo sarà
anche quella indispensabile alla gestazione del suo supplemento o farmaco, cioè
di una nuova scrittura poetica: forse di un distillato di Amarene. Sarà
un miracolo se le due cose coincideranno felicemente. Il lettore del nuovo
libro potrà provare a divinarlo.
Nella prospettiva che ho adottato non è necessario soffermarsi più di tanto
sull’analisi di questa raccolta, dove l’autrice esibisce una vera e propria
fascinazione per la scrittura come supplemento salvifico della parola che, per
essere troppo vicina alla cosa che intende nominare, rimarrebbe altrimenti
muta, poiché «il nome dell’altro» è «così prossimo alla voce da non poterlo
dire» (67). E tanto più quando si tratta dell’oggetto d’amore, dell’éromenos,
che in Silvia viene sapientemente coinvolto nel dramma della scrittura, quasi
come in una eco lontana del Fedro platonico, quello all’inizio
e questa alla fine della civiltà letteraria,[1] Mi
limiterò dunque qui a seguire alcuni echi particolarmente significativi di
questo dramma erotico-retorico. A cominciare da questa intensissima preghiera
all’amato come portatore della linfa vitale: «Senti come vengo a chiedere./
Come ti chiamo: mani e nome. Che/ sai montare alta, marea e piena,/ allagare.
Guarda come mi riduci:/ fradicia e bellissima, come mai/ sono stata. Toccami lì
dov’è la ferita/ […] e tu lo sai che sono scalza e/ nuda davanti a te come
davanti al/ mare» (60).
Raramente mi è capitato di leggere una poesia erotica più intensa e delicata di
questa, ma nel contempo carica di significati che trascendono il singolo legame
per attingere alla dimensione cosmica e alla funzione psicagogica dell’Eros
Platonico. La duplice valenza dell’Eros di irrorare il grembo e di mettere le
ali all’anima, di fecondare il corpo e la mente, si apprezza meglio accostando
questa lirica a quella subito precedente, dove l’invito non è più tanto quello
di esplorare il corpo quanto invece la traccia dell’anima nei versi: «Vieni a
vedere i miei versi cresciuti/ ben oltre le scapole sciogli tu/ significati
nodi usa le dita/ conta ogni sillaba/ e ognuna una volta sola/ Ricomponi/ e
rima anche solo una volta/ prima della chiusa perché è lì che/ rimane il senso
sul finale ed è lì/ che stai anche tu, l’undicesima/ sillaba/ in seconda
terzina. Ultimo segno/ prima del punto, sostegno, sollievo/ cura. Guardami. Non
ho alcuna/ paura» (59).
Siamo di fronte a un dono congiunto di corpo e anima, a una inaudita sfida
d’amore, di intensità e consapevolezza tali che difficilmente l’amato potrà
sentirsene all’altezza. In questa acme amorosa ha forse infatti inizio e si
spiega il subentrare del disamore e dunque anche la necessità di quel farmaco e
supplemento che ne è la retorica, la cui elaborazione sarà poi l’argomento
centrale della successiva raccolta: la paziente preparazione del distillato
agrodolce, dello sciroppo di amarene. Un tema che appare già qui
accennato: «interni al mio ventricolo sinistro/ maturano segreti di amarene/ e
un Dio degli alfabeti scrive/ un’altra canzone con la tua/ grafia sulle mie
pareti. Lascia/ fuori/ il mondo quando vieni. Fammi un bene/ di polpa, la
scorza esclusa e/ crescimi il pane, fatti mangiare./ Sapessi il dolore a volte
come mi/ somiglia. Leggi invece come l’amore è/ uguale a te» (61).
Silvia, che ha la parte dell’erastés, si è ormai fatta esperta della
natura ambigua, inquieta, inaffidabile dell’eros (del suo conflitto o polemosintestino),
del rischio dunque che la stessa intensità dell’offerta costituisca una sfida
impari per l’amato e trasformi l’idillio in polemica, scavando nello “spirito
cavo” i solchi dove si insinua il veleno del disamore: «Artaud ci riconobbe
molto/ prima noi due nati con spirito/ cavo. Lì si insinua Il cosmo./ Spasmi di
parole taglienti come/ lame, affilati accenti puri come/ lune. Le parole
arrivano alle mani/diritto e molto prima/ che alla voce: sudore che saliva/ e
si inchiostra a segnare, a incidere./ E io che vorrei urlare quanto ti/ sono
affine resto muta a contenerti/ tutto./ In questa sera liquida di cera/ colata
giù lungo il mio stelo» (66).
Nel breve giro di queste liriche centrali della raccolta si condensa la
dialettica fra eros e scrittura, natura e linguaggio, i temi squisitamente
platonici di cui dicevo, magicamente, mirabilmente intessuti in un microcosmo
lirico tanto moderno e personale quanto nutrito della più alta tradizione di
lingua e di pensiero. Certo la sensibilità scaltrita per una archeologia ed
ecologia del linguaggio può essere maturata in Silvia Secco tramite la lezione
di Zanzotto, che è sicuramente uno dei suoi autori di riferimento. Essa si è
come trasfusa nelle microfibre della sua poesia. Ma c’è in Silvia Secco un
diverso e aereo sviluppo della metafora del testo-territorio. Là dove Zanzotto dissoda
con la zappa il terreno del linguaggio, giù fino a farne affiorare anche il
dialetto nativo, Silvia lo fa col bisturi, con una penna di colomba, con lo
stilo di un incisore medievale. Ne vengono fuori manoscritti miniati, intessuti
di preziosi emblemi e inquietanti presagi. Laddove Zanzotto dissoda e
scolpisce, lei intreccia ghirlande e fa bassorilievi. Tenendo però sempre fermo
davanti agli occhi l’oggetto del proprio discorso per costruire con la massima
cura un luogo del dire e dell’abitare. Lo fa con la grazia della farfalla ma
con il metodo e la perseveranza della formica che ha esplorato prima
attentamente il terreno entro cui ricavarsi una dimora. Così almeno finora,
fino a Canti di cicale. E mi spiego, e per spiegarmi mi tocca fare
una digressione.
Nella lirica italiana del secondo Novecento, Zanzotto è certo un nome di
spicco, un autore di riferimento non solo per Silvia Secco ma anche per molti
altri. Il suo modo di esplorare il terreno del linguaggio in parallelo ai
meandri della psiche e ai modi dominanti della riproduzione economica e
culturale, ha costituito una lezione insostituibile per molti di noi. Sicché
credo si possa individuare una funzione Zanzotto nella poesia
del nostro secondo Novecento, che coincide con l’archeologia e l’ecologia
congiunte della mente e del linguaggio. In lui opera la sapienza di una parola
che sa rivoltarsi dentro le proprie zolle, a ogni cambio di stagione, unita
alla lungimiranza di uno sguardo che sa vedere “dietro il paesaggio”. Tutto
questo, Zanzotto riesce a farlo proprio perché prende ciascuna volta di mira il
proprio oggetto, lo mette fenomenologicamente in parentesi sospendendone il
giudizio di esistenza, e infine lo mantiene in una messa a fuoco stabile, in
una presa ferrea, sottoponendolo a un lavoro instancabile di scavi, passaggi,
demolizioni e ricostruzioni. La sua si potrebbe dunque chiamare “funzione
formica” ma preferisco semplicemente indicarla come funzione Z.
Dall’altra parte, mi pare di poter riscontrare nel secondo Novecento italiano
una tendenza antitetica: quella verso la mobilitazione dello sguardo e
della voce, della continua variazione della prospettiva e della distanza, nei
confronti dell’oggetto-evento evocato. Questa si realizza anzitutto da un lato
attraverso l’indebolimento dei vincoli fonico ritmici e dall’altro
attraverso la dislocazione della sintassi e della sintagmatica del dettato
poetico. Qualcosa di simile a ciò che è stata l’emancipazione della
dissonanza in musica ad opera di Schoenberg e dei suoi seguaci agli
inizi del Novecento. Bisogna però osservare che ciascuno dei grandi maestri di
quella stagione musicale ha compiuto questa liberazione a modo suo, finendo poi
per crearsi dei nuovi vincoli a proprio uso e misura.
Le declinazioni di questa tendenza che ho creduto di poter individuare sono
peraltro tante, così diverse tra di loro e così diffuse nella lirica
contemporanea, che sarebbe controproducente qui fare dei nomi. Mi limiterò
dunque a farne uno solo e a chiamarla funzione De Angelis, o funzione D,
perché Milo De Angelis è il poeta vivente che ha influenzato un paio di
generazioni di poeti più giovani e pertanto costituisce un’influenza viva e
ancora in fieri nella nostra poesia contemporanea. Mi preme
subito dire però che non bisogna affatto confondere le due funzioni che ho
indicato con le opere dei rispettivi autori. Queste sono infatti entrambe molto
più ricche e varie delle tendenze che ho specificato e che possono semmai
costituire il tratto dominante della loro rispettive produzioni. E d’altronde
le due funzioni si trovano fuse e diffuse nei più vari autori contemporanei,
rimescolate nei più svariati modi.
Questa emancipazione dai vincoli aviti del fare poetico ha ovviamente i suoi
prodromi nell’avvento del verso libero, nella complicazione o cancellazione della
rima e degli altri legami fra suono e senso, e risale almeno ai primi del
Novecento nella poesia Europea. Essa ha già dunque alle spalle una lunga
tradizione ricca di esempi illustri. Ma nella seconda metà del Novecento in
Italia, almeno a partire dalla neoavanguardia del Gruppo 63, essa non ha più
riguardato soltanto le microstrutture del testo, la sua grana fine, quanto
anche e piuttosto la concatenazione sintattica e sintagmatica del discorso
poetico. Essa ha nel complesso avuto degli effetti positivi, aprendo un
ventaglio di possibilità compositive prima ignote, nell’incessante canto di
cicale di tutto ciò che ci è contemporaneo. Tuttavia, al contrario
dell’ermetismo che tendeva a rendere enigmatico il senso dell’enunciato, essa
tende a rendere più mercuriale ed elusivo il soggetto dell’enunciazione. E
pertanto, una volta scaduta a maniera, comporta il rischio di ostacolare quel
processo di identificazione fra destinatario e mittente in grado di produrre
l’empatia necessaria per una piena umana comunicazione.
Questa digressione mi è servita a stabilire delle coordinate su cui tracciare
la traiettoria dell’evoluzione della poesia di Silvia Secco. Mi pare infatti di
potere individuare nella sua ultima raccolta, Amarene, uno
spostamento dalla funzione Z alla funzione D,
ossia anche dalla funzione formica alla funzione cicala.
3. Il farmaco
In esergo, all’inizio
di Amarene (EdizioniFolli, 2018)[2] ritroviamo
il richiamo mai sopito di quella esperienza infantile, nel senso etimologico di
“muta”, priva di parola, di quella vita primordiale che era stata esplorata
nella prima raccolta: «Tu sentissi come/ come mi urla il cuore questa litania./
Mi urla come un bambino» (11). Bisogna fare attenzione in questa ultima silloge
proprio all’uso degli esergo e alla dediche: i
primi hanno la funzione di parerga, stanno nel contempo cioè dentro
e fuori delle rispettive sezioni, costituendo le cornici interne del testo a
sottolinearne lo sviluppo tematico in cinque parti, come in un dramma o come in
una forma sonata. Essi però hanno nel contempo anche la funzione di rimandi ad
altre parti del macrotesto della poeta. Annunciano cioè perfettamente il tema e
il tenore della sezione ma fungono anche da riprese e rinvii, più o meno
deliberati, di altri luoghi dell’opera di Silvia Secco. Le dediche invece sono
un sorta di chiamate in scena di personaggi reali (colleghi, amici, amanti),
quasi a voler sottolineare l’intreccio inevitabile fra realtà e finzione
poetica, fra vita e scrittura, cioè quella tensione bio-grafica che
esplicitamente regge l’opera di Silvia Secco fin dagli esordi, fin da quando
cioè ci spiegava che «L’equilibrio della foglia in caduta» (titolo della sua
prima raccolta) alludeva proprio alla necessità della bugia poetica come
farmaco contro l’angoscia di tutto ciò che, vivente e mortale, è destinato a
cadere al suolo.
Ritroviamo dunque ora qui i temi e gli echi di quel linguaggio aurorale ma in
una prospettiva più scaltrita ed ellittica rispetto al suo oggetto: le
ripetizioni e le domande retoriche, la frequenza degli enjambment,
la frizione fra verso e sintassi, esprimono la complicazione e il
rimescolamento di memoria e desiderio ad opera di un supplemento artificiale
dell’eros mancante, di un distillato a lunga conservazione, che lascia un
retrogusto di amarene: «Come faranno i figli a imparare a vivere/ le madri a
scordarlo, a fare largo/ se madri e padri non sanno la vastità/ bianca dei
campi fatti oceani dalla neve./ Né sanno immaginare di contarle: due/ le
sillabe nella neve, due nella luna/ e nelle due il chiarore. All’amore/ occorre
tacere, come alla neve cadere./ Occorre accarezzare, se brucia soffiare./
Placare se serve, lenire» (13). Le madri, la neve, la conta delle sillabe, sono
tutti temi delle raccolte precedenti che ora tornano in una chiave leggermente
diversa, più discorsiva e dialogica, parzialmente liberata dalle strettoie
dell’equivalenza poetica, cioè dall’imperativo di una coesione forte fra i
livelli del testo, tale da renderlo autoreferenziale e intransitivo. Ma sempre
in perfetta continuità con i temi e il linguaggio dei due libri precedenti:
quelli della lingua-paesaggio aviti, dove si radica appunto la virtù di quel
magico sciroppo di amarene che saprà supplire e curare la carenza dell’amore,
metabolizzare il male di vivere e aprire l’orizzonte di un altro inizio.
Risuona così il richiamo alla lingua e al gesto materno, quasi al limite della
memoria e del linguaggio, mischiando “pane e neve”: «le chiamavano marène, facevano
cibo il cielo, il cielo/ quando cadeva buono» (15). E ritornano anche le
evocazioni infantili della prima raccolta, «il liquido mondo bambino», tutto
stupore e meraviglia, dove «purissimo era stato l’amore/ ed erano confusi il
lupo e la fame», e dove ogni piccola ferita, come per premonizione, è un “malenorme” così
come ogni «vocale nuova, uno spaesamento» (18).Comincia a
svolgersi così la rievocazione di uno stato di natura, nel gioco reciproco,
tenero, a volte crudele fra le parole e le cose, prima di ogni battesimo del
mondo, quando i nomi si sciolgono in bocca “come caramelle” (20) e dove il
trauma è parte della gioia della scoperta. Ci investe una poetica degli oggetti
concreti, indivisi dai loro nomi, fatti carne e sangue, impastati
nell’immaginario onirico, consacrati dalla cerimonia del ricordo, come ostie da
deglutire lentamente a tempo debito. Non posso soffermarmi ulteriormente in
dettaglio, ma tutta questa prima parte costituisce una ripresa e una
rielaborazione dei temi e delle prospettive inaugurali della prima raccolta, in
vista di una fine e di un fine nel contempo esistenziali e poetici.
Nella seconda parte torna invece l’evocazione del tema del disamore,
che era stato centrale in Canti di cicale. Disamore e menzogna,
così in epigrafe: «Bocca sulla bocca ti ho mentito/ l’inutilità di questa
frode» (27). E facciamo caso alla differenza implicita tra questa inutile
menzogna quotidiana e la necessaria finzione poetica che era stata messa a tema
nella prima raccolta di Silvia Secco. Ma il tema del disamore torna qui come un
intermezzo, un transito obbligato, a sua volta una parte della finzione poetico
esistenziale della “foglia in caduta” che, continuando a guardare verso il
cielo, compie quelle capriole che le consentono di disegnare una traiettoria,
una trama drammatica, trasformando la fine obbligata in un fine
prescelto. È un dramma più che vissuto qui rievocato. Assolutamente funzionale
al disegno globale dell’opera, benché sappia un po’ di maniera, perché
l’elaborazione del lutto per un amore esaurito è già avvenuta prima e altrove,
in quella lunga pausa di silenzio invocata alla fine di Canti di
cicale, ed ora viene ripresa come un distillato agrodolce, un farmaco,
un rimedio veleno, che aiuti a riprendere il filo del discorso e a progettare
la figura di un supplemento possibile.
E infatti nella terza parte si compie una sintesi della tensione fra l’eros e
il suo altro, la sua mancanza (penia) congenita, e fra eros e scrittura
come suo supplemento, che sfocia in una felice poetica degli oggetti che quasi
precedono le parole che li dicono, in un notevole raffinamento di quella
poetica etimologicamente infantile che abbiamo già visto all’opera. Possiamo
così gustare distillati, essenze, impasti agrodolci di fiori e frutta: amore e
scrittura tornano nell’eterna farmacologia platonica, nella loro problematica
connivenza, nel gioco infinito della mancanza e della traccia: e come sempre ma
più insistita appare anche l’alchimia di gesti, cenni, mezze voci, in cui si
sgrana il rosario dell’enunciazione, come confessione, denuncia, richiesta,
preghiera. Nel segno di un troppo umano miracolo atteso. Come apprendiamo già
dall’esergo che al solito, ci offre la chiave di lettura della sezione: «In
umano miracolo a riempire/ in umano miracolo a venire al mondo./ In umano e
divino fine» (45). Così si esplicita anche il senso del titolo, Amarene:
la paziente preparazione di un distillato agrodolce di eros e scrittura, che
contiene il retrogusto di tutti i farmaci più o meno buoni ed efficaci:
«Vedessi nel buio poi come si compiono/ misericordiose le opere dei lieviti,/ e
zuccheri mangiati fino all’estinzione» (47).
Cenni, gesti, alchimie, sinestesie, sguardi, impasti vocalici che precedono e
quasi mettono in mora l’atto della parola poetica, differendolo. Ne preparano e
conservano il magico accadere, lo stupore primordiale raccolto nelle minime
misure del verso: «Ora che togli misura al tempo e sei/ pura reale magia e puro
stupore/ di rose gialle su cenere, prova/ a farti minuscolo – grano dentro/
melograno – e ancor meno, un seme/ in osso di pesca. Rimani almeno il gusto/
come di noci nell’impasto, di voci/ sussurrate appena. Fatti bisbiglio:/ sibilo
breve all’orecchio sinistro, briciolo/ sullo specchio» (49). La quintessenza
della poesia come effimero flatus vocis e come testimonianza
deformata, simulacro salvifico, della vita. Ci è stato così servito un
distillato di realismo magico e si comprende pertanto la dedica a piè di pagina
a Gabriel Garcia Marquez. Una pozione che si scioglie poi nella bellissima
apostrofe-preghiera che segue, dove il reame della natura viene messo in gioco
tutto intero, dai papaveri alle folate di vento, dai sassi ai pesci, ai frutti,
alla neve, nella danza ricorrente del dis/amore: «Insegnami il coraggio dei
papaveri/ ai margini di strada, l’ilarità di certe spighe, a spasso con le
folate./ Fammi capace di gentilezza/ – l’erba sul piede nudo, l’attitudine del
sasso/ a tacere le erosioni, la pazienza che hanno i pesci/ con i costumi dei
bagnanti – dammi la fede del frutto/ che maturerà, come ne ha la neve in
altitudine/ a maggio inoltrato» (50).
La preghiera pare efficace se ad essa segue la metanoia, il cambiamento del
cuore, la pace e la fede. Questa serie di allocuzioni esicastiche culmina nel
seguente proponimento, in cui si toccano forse le vette liriche di questa
raccolta: «Impareremo dalle cime la vertigine/ la libertà del gatto di morire
solo. Avremo pietà/ come la terra per il fieno, all’ora della falce –/ un biancoridere di
scogli davanti al mare./ Impareremo a eliminare dalla calce, dalla brace/ a
trattenere. Avremo sete e avremo fame:/ la sete di chiarore della rosa/
l’urgenza degli uccelli di cantare,/ avremo comprensione nelle mani,/ la stessa
fame d’ossa degli anni, dei cani» (51). Coll’indovinato distico finale che
riassume il nesso intimo fra l’amore, la poesia e la morte.
E che dire poi di quest’altra carezza che libera il canto dal silenzio di Sirene
ammutolite e ci dice tutta la dedizione di Silvia alla poesia. È la
dichiarazione di una poetica che si è sempre svolta sull’orizzonte del suono:
«Mi hanno raccontato di sirene/ ammutolite nei millenni dei calcari/ ma ho
sentito che una mano che accarezza/ libera canzoni dentro i tagli, e lamine/ di
pietra si traducono in corde vocali/ dico che il prodigio è il tentativo/ – il
tentativo ancora, fino al suono» (54). Così si accende la vita nella forma
infima e si compie un accurato microcosmo fra i ricordi e i fantasmi del
passato con cui bisogna sempre fare i conti e fra loro il più feroce e indomito
è il fantasma stesso dell’io poetico, quello che non può mai perdonare perché a
lui tocca, all’inizio di ogni nuovo mondo, di uccidere l’infanzia magica e di
assegnare i nomi alle cose: «Ai vetri, uno dopo l’altro vengono i fantasmi./
Uno, il più feroce col mio stesso nome/ mai avrà perdono per me» (57).
Questa è una vera e propria Walpurgisnacht in miniatura, una
discesa alle madri, una fantasmagoria e direi una fantasmagonia centrale
nell’impianto drammatico di questa raccolta.
Non mi soffermerò più di tanto per ragioni di spazio sulla quarta parte, in cui
la tensione e compattezza drammatica paiono scemare leggermente a tutto
vantaggio di una istanza discorsiva più libera e volatile, in grado di
introdurre la sintesi moderatamente ma decisamente euforica dell’ultima
sezione. Qui ancora si svolge comunque il tema della poesia, nel contempo come
effetto e supplemento salvifico dell’amore, individuale e cosmico. Tema
perfettamente introdotto al solito dall’epigrafe: «Tu rimedia con un nome/ e
salvami dai demoni come l’amore/ che dio ama disperdere mentre cammina» (59).
Assistiamo comunque al duplice fiducioso rinnovamento del mondo e del
linguaggio, sul limite mobile tra le parole e cose, sulla linea di marea dove
cadono «fogli di parole ripetute» (65). Dove riappare la tensione inaugurale
della prima raccolta, tra suono, parola e scrittura, che ha retto in
sottotraccia l’intero sviluppo della poesia di Silvia Secco. Sempre dentro il
gioco poetico e cosmico di differenza e ripetizione, di composizione ed
erosione, di accumulo e spreco, cui non si sottraggono né la felice prepotenza
dell’eros né la sorvegliata cura della retorica.
Nel complesso, in questa sezione, al dramma fra eros e retorica si sovrappone
quello fra memoria e progetto, nel segno di una vera e propria freudiana Nachtraglichkeit,
cioè di una risignificazione del passato per effetto di retroazione di un
trauma che si iscrive su quello precedente, e che comporta anche la
ridefinizione del rapporto fra spazio di esperienza e orizzonte di attese del
soggetto. Si tratta dunque di una totale ricomposizione congiunta del dire e
dell’abitare, cioè della più intima Dichtung o poiesis dell’esserci.
Cui fa riscontro ovviamente una nuova spaziatura del testo e una inedita dispositio del
discorso che la esprime. Assistiamo infatti qui alla fantasmatica
rielaborazione e fusione di un duplice lutto, la perdita della madre e quella
dell’amato, che ha costituito il fulcro rispettivo delle due raccolte
precedenti: un lutto che spezza in due il cuore, ne altera i ritmi, ne nutre le
intermittenze e ridisegna la traiettoria esistenziale dell’io poetico, cioè la
temporalità e la metrica complessive della sua esperienza del mondo e della sua
traduzione in parole. Nel solito gioco fra natura e scrittura, qui evocato nel
momento stesso della nominazione delle cose, come una estrema variazione del
tema, prossima ai suoi accordi più lontani, nei pressi delle dissonanze
liberate, quando «s’è danzato il suono/ dolcissimo di mietiture», e si può dare
l’annuncio di «una fine» ma «decisa guarigione» (65). Eco a sua volta, questa,
dell’annuncio numinoso dell’infanzia che promette ora una miracolosa
restituzione dell’esperienza e della lingua edeniche (della prima raccolta),
nella consapevolezza però che si tratta di una eco, di una bellissima
fantasmagoria (e farmacologia) di memoria e desiderio, come l’effetto della
sapiente somministrazione della pozione magica, del farmaco (supplemento e
traccia) amoroso del nostro primo mondo, di quel nostro primo altrimenti
indicibile, ineffabile, amore. In questa ottica si possono allora leggere i
magnifici calibrati versi dove viene evocato l’elusivo rapporto fra visione e
parola: «Il custode dei prati viene a dire/ del gregge, che è più in là verso i
ciliegi./ Che ci dovremmo avvicinare, gli occhi,/ chiari, alla carità dei piedi
nudi/ di chi ancora chiama per nome il campo,/ l’animale e se ne ciba» (66).
Nella risonanza di un verso della prima raccolta, nella consapevolezza
acquisita che «non verrà però la neve, non coprirà il pane» e che per
recuperare poeticamente l’integrità numinosa del nostro primo mondo dovremo
saper usare «la lingua, come un guanto» (66) – la retorica come troppo umano
supplemento della carenza intrinseca dell’eros individuale e cosmico. Questa
profonda e dettagliata elaborazione del lutto, questa consapevole immersione
nella notte dell’anima, consentono infine l’avvistamento della una nuova alba e
della nuova stagione, di cui si tratta nella quinta e ultima parte.
Dove, in esergo, «balla l’erba di gioia/ come un mare» (73). È l’annuncio di un
finale moderatamente, studiatamente “felice”, ossia dell’auspicato avvento di
un amore pieno e forsanche miracolosamente reciproco. La cui realizzazione non
può però che essere affidata all’esperienza acquisita nella vita nonché alla
competenza retorica nella scrittura, cui viene affidato oramai l’atto di
rinominare il miracolo del nuovo mondo. Così ora è la lettera emme che
«dà inizio al nome e dice/ marzo, mattina, le mani/ miracoli di luce e di
magnolia» (75) ma anche “Milano”, «milioni di finestre», «la mano protesa,
l’indice orientato lontano» (76), a indicare il nuovo capitolo di vita che si
apre. Dopo un faticoso trasloco di cose ed affetti, dopo un doloroso addio,
espressamente dedicato, A Francesco B.: «ti lascio come ti avessi
scordato/ sopra uno qualunque degli scaffali,/ restituisco le chiavi» (77). Un
semplice, definitivo e spietato addio, perché la poeta, signora del suo piccolo
mondo, è capace anche di questo. I suoi gesti, la sua scrittura, il suo stile
sono squisitamente affettuosi ma altrettanto taglienti.
Così si fila la trama coerente di una ricomposizione di luogo, del poetico
ripristino della “casa dell’essere”. Una nuova piccola casa arredata con cura
artigianale, dove arieggia l’eco della “tregua di cicale” della raccolta
precedente. Una casa piena di luce, dove le gatte si muovono e «parlano fra
loro/ il linguaggio bianco degli angeli minori» (79). È il luogo dove l’io
poetico può raccogliersi come un dio delle piccole cose. Quasi una tana dove il
respiro delle piante appena portate e il battito forte del cuore intrecciano
una magico contrappunto: luogo di speranza e di attesa, primavera dell’anima.
Infatti qui assistiamo a una vera e propria composizione di luogo, nel senso
duplice dell’arredamento e dell’esercizio spirituale, cioè nel senso figurato
di una liturgia della vita, di una meticolosa preparazione alla rinascita. Un
nuovo appuntamento con la vita, accuratamente preparato, e ora atteso con
trepidazione: l’annuncio scritto e ripetuto di un nuovo
incontro, di un nuovo possibile miracolo d’amore: «tu mi hai scritto che
saresti arrivato alle otto/ hai scritto alle otto, arrivare. Hai scritto» (83).
L’insistenza notarile sull’atto della scrittura, in quanto sigillo e veicolo
del nuovo incontro d’amore e di un rinnovato patto fra le parole e le cose, non
è casuale ed è importante per comprendere il senso e la tenuta di questa
raccolta e della poesia di Silvia Secco in generale.
Il discorso nelle ultime liriche tende poi a farsi esplicito, descrittivo,
dichiarato, come a segnare un anticlimax rispetto alla alta tensione lirica
della parte centrale. È per la sua strategica funzione di contrasto infatti che
la lirica di chiusura della raccolta appare assolutamente pertinente e felice
nella sua ripetizione insistita delle più usurate parole da canzonetta Io
ti amo (86). In quanto suggella la fine del libro, essa rimanda
infatti come un antidoto all’esergo dell’inizio: «tu sentissi come/ mi urla il
cuore questa litania./ Mi urla come un bambino» (11). Nonché alla costante
esplorazione del suono che precede la parola e della vita primordiale che in
esso trova espressione: una esplorazione che attraversa l’intera opera di
Silvia Secco. La dichiarazione-ritornello dell’amore adulto e consapevole: “Ti
amo” è una risposta, un’eco lontana di quella litania che urlava nel cuore
della bambina. E si comprende allora che un “trasloco” radicale è avvenuto nel
corso di questa esperienza poetica che, nel gioco delle figure del discorso, degli
affetti e dei difetti di una memoria abilmente coltivata, Silvia ha tentato di
lasciarsi alle spalle tutta una stagione della propria vita e della propria
poesia. L’esito mi pare felice. Ma quanto ci sia in effetti riuscita lo
potranno dire soltanto gli anni a venire.
4. Iterazioni
Ho finora esaminato
l’opera di Silvia Secco in prospettiva prevalentemente diacronica, cioè
seguendo l’ordine temporale delle sue composizioni e lo sviluppo dei testi
dall’inizio alla fine. Ora val la pena adottare una prospettiva sincronica,
cercando di analizzare l’impianto complessivo del macrotesto, specialmente per
quanto riguarda la cornice, cioè l’inizio e la fine, di ciascuna delle tre
raccolte – rilevando le procedure costanti di ripresa e sviluppo, l’uso
insistito della figura retorica dell’iterazione, il gioco di ripetizione e
differenza o, in altri termini, di ripresa (poetica, musicale, ermeneutica) e
sviluppo di temi già introdotti in precedenza. Ciò varrà credo a chiarire il
funzionamento del macrotesto e farci trarre alcune conclusioni sulla poetica di
Silvia Secco.
Cominciamo col comparare dunque i rispettivi inizi e fini. Nella prima
raccolta, L’equilibrio della foglia in caduta, la
lirica di apertura insiste, come abbiamo visto, sul tema dell’esistenza
effimera che forse solo la parola poetica riesce per miracolo a redimere.
Mentre la raccolta poi si chiude sull’ascolto attonito del silenzio: quello che
attende ogni forma di vita o di parola: «Odo/ un piovere che batte/ sulla corte
le lotte/ dei cani. Il morire/ dell’oggi nel domani» (79). In questa raccolta
la rievocazione di un mondo infantile e adolescenziale appare insieme al suo
rovescio speculare, cioè si tratta nel contempo di poesia dell’origine e di
origine della poesia: quell’atto di battesimo del mondo che da un lato è la
manifestazione più alta della verità nel discorso umano e dall’altro è una
bugia salvifica, cioè ha insieme per noi funzione rivelatrice e consolatoria,
ma che se vogliamo è anche un oltraggio al silenzio che precede e segue ogni
parola umana.
In Canti di cicale l’inizio verte invece sui temi della
gestazione e del parto, biologici e poetici, e sul paragone fra questi due
travagli complementari, esiti rispettivi della pratica dell’Eros e di quella
della retorica. Esprime anche il senso di inadeguatezza della driade e poeta
Silvia, dedita alla “conta delle sillabe”, di fronte alla terra madre, Demetra,
in cui lei stessa ha radici, e che le imporrebbe “conte di settimane” e parti
biologici. Riguarda insomma l’inevitabile sacrificio, da parte del poeta, della
“perfezione della vita”, “alla perfezione dell’arte” (W.B. Yeats). La raccolta
si chiude invece con il presagio di una tempesta, forse della fine di un amore,
e ancora su una nota di silenzio, stavolta non attonito ma desolato o
rassegnato, quello che interviene fra due che non hanno più niente da dirsi, ed
è eco del silenzio cosmico, dell’entropia, della dissipazione, del vuoto che
alla fine avrà la meglio sia sulle tempeste della vita che sulle cure
dell’arte.
All’inizio di Amarene, in esergo, ritroviamo di nuovo la evocazione
del vagito, dell’urlo dell’infanzia del mondo: «tu sentissi come/ come mi urla
il cuore questa litania/ mi urla come un bambino.» Mentre la lirica finale
della raccolta sembra mostrarci la rivincita congiunta di eros e retorica,
principi costruttivi rispettivamente del mondo e del discorso, sul silenzio,
sulla solitudine e sulla aridità dell’anima. A un approccio macrotestuale
risalta dunque questo finale, per la prima volta euforico: esso pare segnare
una svolta nella vicenda poetico-esistenziale di Silvia.
All’interno della quinta e ultima sezione, che mette in scena una nuova
primavera dell’amore e un nuovo atto di battesimo del mondo, si assiste poi al
trionfo palese della figura retorica dell’iterazione, che nella lirica
iniziale è di ordine prevalentemente fonico: «La lettera emme da
inizio al nome e dice/ marzo, mattina, le mani/ – miracoli di luce di magnolia/
[…] Te lo dico io, ti dico intero/ tutto il cielo» (75). L’iterazione pare poi
tracimare nel corpo del testo, come un distillato alchemico che finisce per
permearne tutti i livelli e costituire una sorta di mappa dell’intero percorso
fatto da Silvia in questa sua ultima prova poetica, offrendoci nel contempo un
grafico del suo spostamento da quella che ho chiamato funzione Z a
quella che ho chiamato funzione D.
Daniele Barbieri ha fatto una certosina, puntuale analisi della capacità della
ripetizione, sapientemente variata, in questa lirica, di restituire al loro
scintillante esordio le parole usurate della dichiarazione dell’amore: “io ti
amo”. L’analisi micro testuale di Daniele Barbieri è acutissima e convincente.[3]
A me tocca ora però di spostare l’ottica dal micro al macro testo, cioè
all’intera produzione, di Silvia Secco e cercare di collocare questa lirica nel
suo contesto. Anzitutto mi preme osservare che il gioco di ripetizione e
differenza, e di ripetizione che fa la differenza, va ben aldilà della sola
sfera poetica, investendo l’intero funzionamento del nostro pensiero nonché del
nostro essere al mondo e orientamento al mondo. Per quanto riguarda poi l’arte
del discorso, bisogna dire che il meccanismo di ripetizione e differenza
sottende la produzione di tutte le sue figure, a partire da quelle cardinali
della metonimia e della metafora. Il procedimento della iterazione regge
insomma come è ovvio l’intero funzionamento del testo poetico che
caratteristicamente proietta il principio di equivalenza dall’asse
paradigmatico a quello sintagmatico del linguaggio (Roman Jakobson). Esso
riguarda dunque non soltanto la ripetizione testuale di certi sintagmi ma tutti
i procedimenti del discorso poetico, dalle figure fonico-ritmiche a quelle
sintattiche: quanto a dire, l’intero principio del versus. Ma lo si ritrova poi
anche, nel gioco di anafora e catafora, come elemento strutturante di ogni
narrazione e descrizione, perfino in altri codici, esterni al linguaggio
verbale e al sistema letterario. Esso è in effetti il veicolo base della
coniugazione del vecchio col nuovo e insomma della informazione e trasmissione
culturale in generale. Nella civiltà della scrittura, lo si ritrova poi in modo
eminente come principio costruttivo del libro dei libri, cioè della Bibbia,
dove la ripetizione parola per parola è una pratica costante. Ed è sotteso
inoltre al cosiddetto parallelismo biblico, per cui molti episodi dell’Antico
Testamento vengono letti come altrettanti annunci di eventi della vita
di Gesù, mentre quest’ultimi vengono a loro volta interpretati come compimenti
delle profezie precedenti. Questo gioco di anticipazione e compimento, che
determina fra l’altro l’orientamento escatologico della Bibbia,
dal Genesi all’Apocalisse, rientra anch’esso nella
dialettica pervasiva di ripetizione e differenza. La ripetizione esatta di un
sintagma in un testo è perciò solo un caso particolare, sebbene forse il più
evidente, di un meccanismo universale e pervasivo del discorso.
Certo, il componimento finale di Amarene costituisce, come ho
detto, una ricapitolazione condensata e una messa a fuoco del meccanismo
dell’iterazione nel macrotesto di Silvia Secco.[4] Cercherò
pertanto di esplicitare ora il funzionamento della ripetizione in quest’ultima
lirica della raccolta, in rapporto alla struttura iterativa della intera opera,
per metterne in luce soprattutto il suo strategico valore di posizione.
Infatti, in questo componimento finale, l’impiego della ripetizione risulta
tanto deliberato quanto persuasivo: esso ci illumina pertanto sia riguardo alla
maestria retorica che regge l’intera silloge, sia riguardo alla piega che
sembra prendere ora la sua poetica. In primo luogo, dobbiamo osservare che la
ripetizione si svolge qui sul doppio piano della enunciazione e dell’enunciato,
coinvolgendoli entrambi in un unico dramma in cui quella che ho chiamato
la fantasmagonia della parte terza, viene ripresa e condotta
verso la sua finale catarsi. La restituzione di tutta la sua pregnanza alla
dichiarazione dell’amore ha qui dunque soprattutto la funzione di indirizzare
il dramma del disamore verso una conclusione almeno momentaneamente felice.
Dicevo che il livello è duplice: si afferma infatti cinque volte che le parole
“io ti amo” vengono ripetute al mattino, nella reverie del
dormiveglia, e «deposte nel cavo/ grembo di ogni equilibrio e di ogni memoria»
(86): risulta pertanto evidente la dimensione cosmica e anamnestica di
quest’operazione, presumibilmente dettata dall’amore stesso ma sancita solo con
l’aiuto prezioso della retorica che gli offre la figura del discorso, il
farmaco della ripetizione. Dopodiché effettivamente le parole “Io ti amo”
vengono ripetute tre volte: e si direbbe allora che in un certo senso
l’artificio dell’enunciazione fa premio sulla presunta sincerità
dell’enunciato.
Non bisogna dimenticare però che quello della necessità della finzione è un
tema caro a Silvia Secco fin dalla sua prima raccolta: L’equilibrio
della foglia in caduta, titolo che allude proprio, come si è visto, alla
necessità della finzione po-etica come supporto dell’angoscia
per il male di vivere. È un tema che attraversa poi tutto l’arco della sua produzione
per giungere infine a questo ultimo approdo. La dimensione
ermeneutico-esistenziale e addirittura logico-metafisica di questa reverie mattutina,
effetto del buon operare dell’eros, trova un perfetto equivalente nella
coesione testuale realizzata ad opera della retorica. I due principi appaiono
dunque qui nella loro esemplare, perfetta complementarietà. Viene inoltre ora
evocata esplicitamente la funzione anamnestica dell’eros, che fa sì che la
psiche possa ricordare la visione delle idee che ha dimenticato dopo la caduta
nella prigione del corpo, secondo il mito orfico-pitagorico della metempsicosi,
utilizzato da Platone nel Fedro per spiegare la sua dottrina
delle idee. Nel complesso dunque il dramma intimo viene qui proiettato su un
orizzonte metafisico che coinvolge niente di meno che essere e tempo, eros e
memoria. La ripetizione, abilmente disposta e variata, riesce insomma a
redimere lo stereotipo e restituirci l’archetipo della dichiarazione
dell’amore. Il recupero della dimensione archetipica e di una esperienza
infantile, nel senso proprio che «anticipa ogni atto di battesimo del mondo» è
d’altronde il tema portante della prima raccolta di Silvia Secco, e attraversa
poi tutta la sua produzione poetica, ivi comprese anche le performances di Ursprunglisches
Leben in collaborazione con Claudia Zironi.
Lo scioglimento felice del dramma dell’eros, tramite la ripetizione
retoricamente sorvegliata della sua dichiarazione, disegna dunque una sorta di
rinnovato orizzonte degli eventi, nelle profondità del tempo vissuto, nelle
alchimie di memoria e progetto. In questa palingenesi erotica della
fanciullezza del mondo veniamo perciò ricondotti all’origine sia del tempo che
del discorso nelle «profonde cavità senza suono» (86). Sia questa lirica finale
che l’intera ultima raccolta si chiudono così su una nota apparentemente
euforica. Essa contiene però una potente ambiguità di fondo. Perché il silenzio
primordiale qui evocato è a sua volta una ripetizione-variazione dei finali
delle due raccolte precedenti. La prima si chiudeva con l’evocazione del
silenzio come tratto implicito nella temporalità dell’essere al mondo: «Odo… il
morire dell’oggi/ nel domani.» Nella seconda si trattava invece di un silenzio
desolato o rassegnato, di fronte alla imminente fine di un amore: insieme lutto
del mondo e condizione postuma del linguaggio.
Un silenzio attonito il primo, dunque, desolato il secondo, e ho già detto che
la durata di questo silenzio avrebbe riguardato sia la rigenerazione dell’anima
ferita che la nascita di una scrittura poetica rinnovata. Ora sappiamo che
questa gestazione ha condotto alla splendida pozione di “amarene” che c’è stata
appena servita. Non dobbiamo scordarci però che si tratta pur sempre di un
farmaco, cioè di un rimedio-veleno indispensabile a rigenerare lo stesso Eros
che, essendo figlio di Poros e Penia, è da un lato capace di farci grandi doni
e di indicarci la strada nella vita, ma dall’altro rimane sempre inquieto,
unilaterale e inaffidabile per sua propria natura. Esso stesso dunque ha bisogno
della retorica come supplemento della sua carenza interiore, come ri-mediazione
e rimedio della sua propria instabilità. Eros e retorica, ispirazione e
tecnica, sono i due principi complementari della poesia – e di ogni demiurgia,
individuale e cosmica, con le sue proprie distanze, tempi e spaziature, coi
suoi propri metri e per i suoi versi, nel gioco perenne di ripetizione e
differenza, di ripetizione che fa la differenza, di differenza che ricade nella
ripetizione. Si può concordare dunque con la perspicua analisi che Daniele
Barbieri fa di questa lirica finale di Amarene, salvo poi
rilevarne anzitutto lo speciale valore di posizione nell’ambito dell’intera
opera di Silvia Secco.
Nell’uso marcato dell’enjambement, che palesa il conflitto saliente di versificazione
e sintassi in questa lirica (anch’esso rilevato da Daniele Barbieri) si palesa
infine in modo evidente quello spostamento dalla funzione Z alla funzione
D che ho notato in precedenza, cioè l’occasionale indebolimento della
tessitura fonico-ritmica e dei vincoli semantico-sintattici a tutto vantaggio
di una maggiore libertà e fluidità enunciativa. Si tratta di una minima
emancipazione della dissonanza all’interno di quell’ubiquo “canto di cicale”
che è il discorso poetico contemporaneo nel suo complesso, e con le sue più o
meno auspicabili “tregue”, nel solito gioco di ripetizione e differenza ma con
esiti che non ci è mai dato di poter calcolare.
© Giuseppe Martella
[1] A questo proposito, mi permetto di rimandare il
lettore alla mia recensione a Canti di Cicale di Silvia
Secco, www.samueleeditore.it.
[2] Il
libro è autoprodotto e disponibile su Amazon a richiesta.
[3] http://www.guardareleggere.net/, 7 Marzo 2019.
[4] Le
parole del mattino ripetute all’orecchio/ io ti amo, ripetute al mattino
all’orecchio del sonno/ nell’ultimo anfratto del sonno, deposte nel cavo/
grembo di ogni equilibrio e di ogni memoria. Le parole/ io ti amo del mattino
mandate a memoria, ripetute/ e ripetute, depositate come un monile d’argento/
nel cavo – delle nostre mani abbandonate, dell’orecchio –/ nel sonnolento cavo
della logica, nel tempo/ ancora cavo del mattino, dentro – minimo embrione/
d’argento, ciondolo di profezie e fortuna – Io,/ io ti amo, le parole ripetute
nel tempo, le antiche parole/ madre e padre del tempo, ripetute al mattino
all’orecchio/ nel sonno del tempo, nelle profonde cavità senza suono.