Bioetica della compassione: Maria Grazia Calandrone e Il bene morale (Crocetti, 2017)
di Giuseppe Martella
In questa sua ultima raccolta, Maria Grazia Calandrone mette in scena un
vero e proprio dramma bio-logico, cioè un intreccio (e un conflitto) tra forme
di vita e di linguaggio-pensiero, in vista di un’educazione dello sguardo e di
un auspicabile cambiamento del cuore umano. L’autrice lo fa indagando tutta una
serie di dimensioni della scala naturae, che vanno dal micro al
macrocosmo, dalla cronaca alla paleo-storia, dalla biologia alla geologia,
indagando i tempi del nostro essere al mondo e i luoghi del nostro abitarlo. Esplorando
lo spazio profondo che va dai microrganismi alle galassie per trovare gli snodi
dove si cela quel minimo margine di libertà che ci è concesso per l’esercizio
di una più che umana compassione. La prima lirica della raccolta, Un
semplice esercizio di libertà, una toccante interpellanza al lettore, ha
dunque un valore esplicitamente programmatico. E la varietà deliberata dei
registri linguistici, dall’umile al sublime, dal semplice all’ornato, e dei
metri poetici impiegati risulta perfettamente congrua con i cambi di scala e di
prospettiva che caratterizzano questa indagine bioetica in versi, questa lucida
e accorata ricerca del bene morale. La portata bioetica e biopolitica
dell’opera appare infatti evidente fin dalla prima sezione, una delle più intense
e compatte dell’intera raccolta, dove gli Alberi, con la loro
«capacità variabile/ di sopportare tagli/ tra i filamenti vivi» (13) ci
mostrano la disponibilità al ritorno alla terra, alla pacificazione con la
morte così come con la vita: «essere terra/ bisogna, sotto la loro macchina da
fiore» (14).
Per molti versi questa silloge di Calandrone costituisce una summa della
sua attività precedente, non solo poetica ma anche socioculturale in genere, in
quanto portavoce della poesia italiana contemporanea nelle sue valenze sia
estetiche che politiche. A testimonianza di una dedizione e di una competenza
che sono davvero rari a ritrovarsi insieme. Questo testo di andamento
diaristico ci consegna insomma l’ethos dell’autrice nella sua interezza, cioè
il tono fermo e pacato della sua voce insieme alla costanza del suo fare,
civile oltre che poetico.
L’opera è divisa in nove parti piuttosto eterogenee fra di loro quanto ad
argomenti, stile e lunghezza. Tuttavia, in questo caso, la tenuta dell’intero
non va misurata sulla omogeneità delle parti quanto piuttosto sulla loro
intenzionale diversificazione, che mima a livello formale le diverse scale su
cui viene condotta l’indagine bioetica, la ricerca di un possibile bene morale.
Non ci troviamo di fronte dunque a una struttura lineare ma piuttosto
rizomatica, una sorta di giardino dei sentieri che si biforcano o di labirinto
del cuore umano, dove ci appaiono i più svariati incroci tra il dire e il fare,
nonché tra il controllo cartesiano e l’abbandono epifanico.
Già la prima sezione ci presenta una varietà di metafore organiche dell’amore
perduto e ritrovato, di quotidiani eroismi e improvvisi abbandoni, di fragili
santità che si profilano nella onirica e realissima, «calda e ordinaria/
carneficina del sonno» (26). Offerte e comunioni che attraversano «tutto il
disequilibrio della notte» (28), tellurici siderali sacrifici (29-30), tutta
una serie di eccentrici offertori dove infine la voce narrante apparirà essere
quella di una scimmia-fiore (68) che ci restituisce l’eco di una primigenia,
più che umana innocenza: «lo splendore della cosa/ lavata dalla spuma
dell’inizio» (21).
La estesa seconda parte, Vittime, in cui l’etica scivola
insensibilmente nell’etologia e nell’ecologia, si può definire in estrema
sintesi come l’articolazione di un’unica domanda riguardo al nostro
(occidentale e occiduo) possibile rancore nei confronti dei migranti, cioè di
coloro che sono ancora in grado di coltivare un sogno di concordia a noi
precluso. E a mo’ di risposta la terza parte, In un sistema di amore,
formula una ipotesi etico-politica su una possibile società del dono e della
cooperazione in contrasto a quelle attuali dello scambio e della competizione a
tutti i costi: un’ipotesi certamente utopica, che qui vale a nutrire sottotraccia
tutti i cuori dei viventi e dei morti, dalle bestie agli spettri. A innervare
perfino la memoria storica dei loro organi: la lingua fatta di muscoli e quella
fatta di parole, costituendo un “sistema di amore” che si effonde infine nella
poesia e nel canto: «tutto il canto e la gioia delle cose di essere cose,/
tutta la infinitudine del canto» (89). Sì che poi la parte successiva, la
quarta, possa costituire un vero e proprio inno alla vita, dipinta nella vasta
gamma delle sue contraddizioni, nella incomprensibile, paradossale coincidenza
fra «lo splendore della bellezza» e «l’idiozia della cosa» (93). E si tratta
qui anche di una anatomia della parola viva che rinasce e si declina tra la
bestia e la musa, secondo natura, e di una esortazione all’amore come linfa
dell’anima che si smemora nel succedersi delle sue reincarnazioni: «Fai parlare
la voce di questo corpo/ risalendo la legge di natura» (95).
Seguendo questo filo conduttore, si perviene così alla quinta parte, Roma,
l’Urbe che funge da icona di quel complesso bio-tecnologico che chiamiamo
“civiltà”. Qui si indaga esplicitamente quello spazio minimo di gioco tra bios e tekne,
tra organismi e macchine, quel «prolungamento delle rotule nell’albero/ motore»
(121), quella «massa bellissima di corpo/ e macchina» entro cui si situa la
nostra residua possibilità di scelta. Lì dove solo «un millimetro scarso di
membrana conserva le creature/ nel sacco del proprio comportamento morale»,
custodendo la tenue possibilità di «un trionfo ordinario di amore,/ un rogo
morale/ di volti umani e vetro» (122). Questa trama fitta di tessuti e
ingranaggi viene proiettata sullo scenario dell’urbe, nel rito ordinario delle
autovetture che sfilano con obbedienza lungo la tangenziale, uno spettacolo in
bilico fra l’utopia e la distopia, una ibridazione suggestiva fra la rosa dei
beati di Dante e il crash planetario di Ballard. Dove il corpo
umano si trova ad esser gettato nella apertura del proprio essere cyborg,
scoperto e inerme, catturato nella routine della circolazione autostradale (che
è sineddoche del circuito riproduttivo della merce), messo a nudo a brillare
«come una cosa» (123). In questa prospettiva crudamente, amorevolmente utopica,
la folla sull’autobus appare poi allo sguardo del nostro poeta-reporter come
“un volume variabile di estranea bellezza”, una massa in cui la pietà dello
sguardo fa affiorare i dettagli della vita, «l’invincibile e definitiva/
gentilezza umana» (124). Fra massa e individuo, fra disegno e dettaglio, fra
utopia e distopia, questo è lo schema di apprendimento che regge l’intera
sezione, una delle più intense della raccolta, disegnandone lo spazio di
esperienza e l’orizzonte di attese, illuminati dal filo incandescente della
corrente empatica che costituisce il filo conduttore di tutta questa ricerca e
testimonianza.
Un filo che si svolge ancora coerentemente nella sesta parte, Questi
corpi leggeri come presagi, dove si mette a tema il rapporto fra ambiente e
individuo, mondo e corpo, norma e eccezione, cercando di cogliere l’emergere
delle singolarità nel corso dell’evoluzione. Ci si sofferma insomma qui proprio
sulla bellezza e fragilità di ogni nascita, sia che si tratti di una creatura
in carne e ossa oppure invece di una minuscola variante evolutiva. Si assiste
cioè all’effimero cristallizzarsi di una nuova forma di vita così come viene
portata alla luce per caso e per poco, grazie a un fuggevole sguardo o parola,
«nel rosaceo stupendo della sera», fermata quasi in dissolvenza «nel rettangolo
di cielo e marmo/ della soglia, fermo nel dolce male della [sua] grazia» (136).
Lì dove, tra gesto e voce, trasecola di quando in quando il “mondo-onda” e si
condensa, come raggio laser, «il succo maturo della luce» e «l’aria schiuma
rappresa» (140). Lì dove l’occhio animale dopo millenni di evoluzione secerne
infine «la prima lacrima di gioia» (142). Altrettanti millenni sono occorsi
perché nascesse una voce francescana capace di unire tutte le creature in quel
canto di lode che viene qui proiettato in una prospettiva evolutiva che
abbraccia onto- e filogenesi: «le ossa petrose dei bambini» che «sono
agglomerati di futuro», cogliendo in orizzonte cosmico la nostra coscienza
linguistica al suo stato embrionale: «il raschio delle parole/ sotto la
mareggiata delle stelle,/ il puro morso della coscienza nello stato carnale»
(145). Dove la parola poetica tende a spersonalizzarsi infine per diventare
puro appassionato strumento di testimonianza, eco e traccia di vite molteplici,
cosa fra le cose, per esprimere un ultimo decisivo desiderio: «vorrei… che
questo essere uma-/ no mi scavalcasse/ come fossi una cosa ordinaria,/ un legno
selvatico a metà emerso/ da una luce vistosa» (148). Per poter cantare la lode
della giovane, fragile, irripetibile vita nascente: «Canta bambina, canta,
figlio mio/ come io scrivo. Così sarete quelli che non siete. Sarete/ -altri/
semi nel nulla/ … / ognuno, tutta la vita» (149). Per poter
educare ogni sguardo innocente ad assorbire «il magnetismo delle foglie nuove»,
«il peso materiale del cielo», per poter affermare infine che «vale tanto la
vita, quest’unica/ gioia/ rinata dal male» (151).
Tutto questo trasumanare del poeta, questo suo proiettarsi in una dimensione
evolutiva, lo conduce poi a indagare la biologia della parola, le eliche del
suo DNA, come accade nella sezione seguente il cui sottotitolo è appunto “dieci
frammenti sull’evoluzione”, per coglierne lo stupore primordiale a livello
fenotipico, nelle svolte salienti della nostra specie, per evidenziare il salto
enorme che l’acquisizione del linguaggio costituì nel corso dell’ominazione. Si
tratta di uno spaccato frattale dell’intera opera, una ricapitolazione, una
micro-polifonia della compassione della parola incarnata. Una cornice interna,
una miniatura e uno specchio in cui si chiarisce definitivamente il tenore
bioetico dell’indagine e il senso della quest che si tinge ora
decisamente di connotazioni cristologiche. L’emergere della parola, il suo
incarnarsi appare ora infatti come «un gesto di compassione» (155), il passo
decisivo per imprimere un’impronta morale al dramma evolutivo. E si comprende
chiaramente allora che il “bene morale” di cui qui si tratta fa tutt’uno con il
dramma del Logos Egeneto, della “parola generata”, sia nel senso
scientifico di una sana bio-logia che in quella evangelico della passione del
Verbo.
Se per Robert Burton e Thomas Browne, medici-letterati del Seicento inglese
(cui l’opera di Calandrone per certi aspetti si apparenta) si trattava di una
medicina dell’anima, qui ora abbiamo un trattatello di anatomia e di bioetica
in versi che percorre a ritmo serrato i salti evolutivi della specie, le tappe
dell’ominazione, la nascita della coscienza e della storia, del discrimine tra
il bene e il male, e culmina infine nel prodigio dell’amore come dono e come
peccato originale. Il tutto sullo sfondo mitico della fondazione dell’Urbe che
funge da scenario di approdo dell’intera vicenda, dove il senso della storia si
affida alla magia del verso, che a sua volta però appare come un’eco (nel
respiro) delle svolte evolutive e geologiche, per cui la poesia «non è che
questo/ rimbalzare del suono tra angoli bianchi/ di crateri preistorici» (163)
e la siluette del poeta si profila come quella di una «scimmia lunare» che sa
«trasformare in canto/ il sangue della specie… mentre attinge/ alla lingua
comune/… che risorge dai luoghi dell’origine» (163-64). Il cui ultimo senso si
affida comunque infine soltanto a una più che umana compassione che attraversa
tutti i regni del creato (animale, vegetale, minerale) facendosi voce della
natura stessa, parte del paesaggio («rossi/ alberi-parola/ emanati dal centro
del paesaggio in fiore») (167). La compassione come unica forza in grado di
legare i distinti: natura e cultura, parola e immagine, donando così un nome
alle cose, penetrandone la muta, oggettiva evidenza (169). Si tratta qui dunque
di una genealogia congiunta del corpo e del linguaggio, del ritorno a uno
stadio primigenio e infantile dell’umanità, perché per ricucire lo scisma tra
le parole e le cose, per recuperare un’eco dello stupore e dell’innocenza degli
inizi, per custodire una benché lieve speranza messianica, «per salvarsi
bisogna/ che tutto il corpo canti come un bambino». Questa compassione della
parola poetica e testimoniale, in grado di dare una svolta etica alla storia,
ha ovviamente il suo simbolo sommo nel sacrificio di Gesù, «carne inchiodata a
un oggetto» (173), uomo-dio e agnello sacrificale.
La coda finale dell’opera è una sorta di Requiem, l’acme della testimonianza
che si sublima in una preghiera di pace che unisce la solitudine dei vivi a
quella dei morti: «Io non posso lasciarti/ senza offerta: con il cibo che viene
dalle mie mani/ posso salvarti dalla solitudine dei morti» (177). La terrestre
nudità della vita si riscatta nella pietà del ricordo, che è poi il filo
conduttore dell’opera, riassunto ora nell’antico e sempre ricorrente rito
funebre che costituisce come il risvolto necessario della funzione battesimale
della poesia, del suo dover sempre dare nuovi nomi alle cose. In questo Requiem
spicca (come un’eco della canzone di Ariel nella shakespeariana Tempesta)
la metamorfosi marina nell’Aria della sirena le cui sinuose
variazioni obbediscono tutte al ritmo del «respirare e immergersi» (178). Si
tratta di un dialogo fra elementi che si continua in quello inaudito ma
auspicato fra l’inflessibile necessità e l’indomabile speranza, nell’Aria
del muro e della crepa: «io sono un muro/ ma con te la materia fa sogni… tu
sei la crepa e io sono il destino» (180). Il muro dei fatti e l’ostinata crepa
della parola: «Sei lo spacco nel cuore della cosa. Sono la pietra dentro la tua
bocca, l’assassino» (181). E si conclude infine con la splendida, aerea,
francescana canzone dell’innocenza, con l’eterno fanciullo divino che canta gli
inizi del mondo: «Canto e sono leggero/ come un fiore di tiglio/ canto e siedo
davvero/ dove mi meraviglio:/ all’inizio del mondo» (182). Voce dello stupore e
dell’innocenza che canta «l’amore che è solo polvere che tende alla luce» (183)
e cantandolo lo mette in opera, nel miracolo che ogni volta segna la
palingenesi congiunta del mondo e della parola.
Potremmo allora definire la poesia di Maria Grazia Calandrone come la ricerca
non soltanto di un dire ma anche di un agire aurorale: un atto linguistico
inaugurale che tenta, attraversando gli strati fossili della nostra storia, di
trasferire nella muta inerzia delle cose la possibilità della scelta. Portando
così anche l’angoscia per la nostra mortalità al di là della sfera
dell’esserci, espandendola come una radiazione (o compassione) cosmica di fondo
per permeare i vari gradi della scala naturae, dal micro al
macrocosmo, delineando uno scenario credibile per quel minimo, decisivo margine
di libertà che ci rimane. È questo costante tenore performativo che si può
riscontrare nella varietà dei registri linguistici toccati, dalle sequenze
argomentative agli sbalzi lirici, quasi fosse una firma in calce, un
sottotraccia del linguaggio, un tatuaggio d’artista sulla pelle levigata del
verso. O piuttosto anche la chiara voce del reporter dal fronte di guerra, o la
doverosa firma del testimone agli atti di un processo. Perché tutto ciò si
ritrova in questa summa dell’impegno civile e poetico, in questa satura di
temi, metri e registri, che pare voler custodire nella misurata varietà del
verso l’infimo margine di gioco che permane nell’esercizio della scelta
individuale, una volta che si siano fatti radicalmente i conti con i vincoli
antropologici e biologici del nostro essere al mondo.
Per la sua indubbia intenzione cognitiva oltre che edificante, e per la
sua capacità argomentativa oltre che lirica, a me pare di poter accostare
questa poesia, oltre che all’intelletto d’amore del Dante della Vita
Nuova o alla fusione di pensiero e sentimento delle canzoni John Donne
(come è stato opportunamente indicato),[1] anche e soprattutto all’arte di quei
letterati-scienziati del Seicento, veri e propri medici dell’anima oltre che
maestri di stile, come il Robert Burton di Anatomia della
malinconia o il Thomas Brown di Religio Medici. Illustri
classici della letteratura inglese: il Burton che mescola registri diversi,
prosa e versi, facendo frequentissime digressioni, e che studia la malinconia
come una sorta di privazione d’essere, una fondamentale carenza esistenziale da
cui ogni altro sentimento è colorato come una varietà della medesima
elaborazione del lutto. O il Browne dalla voce affabile e persuasiva, che tenta
di risolvere le acute antitesi fra scienza e religione proprio con la fedeltà
quotidiana alla propria missione di medico, componendo i propri ausili
terapeutici in un vademecum di umana saggezza.
Ma al di là delle possibili affiliazioni, si tratta qui di un’impresa po-etica
in cui il gesto minimo di resistenza quotidiana sembra assumere, nell’arco di
una vita individuale o nella storia di un popolo, una valenza decisiva, analoga
a quella che nella filigrana del verso assume una sillaba in più o in meno.
Perché in fin dei conti, la ricerca e la bonifica di un territorio, la sua
trasformazione in dimora, il vivere e l’abitare, l’edificare insieme, non sono
attività tanto diverse dalla poesia (Tichtein indoeuropeo,
costruire un tetto, ha la stessa radice di Dichtung, “guarnizione,
poesia” in tedesco). E la poesia stessa, come ci hanno insegnato Platone e
Aristotele, è pur sempre una forma del fare, seppure la più speciale e
decisiva, quella che può contenere in sé i propri fini: praxis téleias.
Ed esattamente questo tenta di essere la poesia di Calandrone, una praxis
téleias proiettata sul nostro attuale orizzonte bioetico e
biopolitico, orientata alla antica e sempre nuova, difficile e necessaria,
ricerca del kalokagatos, di ciò che è bello perché è buono.
Siamo di fronte a un’opera dunque che indaga il codice, linguistico e genetico,
cioè po-etico in senso pieno, del nostro essere al mondo insieme ad altri, in
una diversificata finitezza di obiettivi e di orizzonti, di appetiti e percezioni,
in un groviglio inestricabile di azioni e passioni, nell’eterna dialettica di
vita e forma, in cui l’ineluttabile insensatezza di ogni singolarità può venire
riscattata solo dalla compassione per il diverso. Un’opera in cui la stessa
ambivalenza costitutiva della storia, complesso di eventi e narrazioni, res
gestae e historia rerum gestarum, viene infine messa a
fuoco e trasfigurata dalla costante tensione etico-cognitiva della ricerca e
dal suo impeccabile risvolto poetico, per cui le continue deliberate variazioni
dei metri e dei registri impiegati corrispondono, come ho accennato, sempre
funzionalmente ai cambiamenti di prospettiva e di scala dell’indagine svolta.
© Giuseppe Martella
[1] Giovanna Frene, Maria Grazia Calandrone, che cos’è il bene?, «Alfabeta 2», 8 Luglio 2018.